DOCUMENTO ESCLUSIVO: Le memorie dell’ex massone e Maestro Venerabile calabrese scomparso nel nulla: la verità sull’Unità italiana

DOCUMENTO ESCLUSIVO: Le memorie dell’ex massone e Maestro Venerabile calabrese scomparso nel nulla: la verità sull’Unità italiana

A.S. Seguire le note integrative, alla fine dell’articolo.

La conoscenza, da sempre, risulta essere una delle armi più potenti, per combattere uno dei mali, altrettanto, tra i più pericolosi, quale risulti essere l’ignoranza; che si afferma essere ancor più deleteria, per un popolo, una comunità od una società, quando il peccatum ignorantiae vada a riguardare la consapevolezza della storia, di quello stesso popolo, comunità o società.

La lux veritatis, attraverso tale trattazione, verrà fatta discendere su di una tematica di cruciale importanza storica ma anche attuale, per il popolo italiano, meridionale e, nella fattispecie, calabrese, quale risulti essere il periodo storico relativo all’unificazione italiana.

La presente disamina storica, si avvarrà della diretta testimonianza e conoscenza, di un personaggio calabrese vissuto proprio in quegli anni burrascosi, tale che la trattazione che seguirà, potrà certamente vantare una paternità empirica di una qualità non certo indifferente; e l’importanza di una tale documentazione, appare manifesta ed evidente, ancorché dopo più di un secolo e mezzo, la questione unitaria italiana (dalla quale, in via collaterale, si faccia poi discendere quella della cosiddetta ”questione meridionale”) faccia ancora discutere, in un coacervo di negazionismo storico, da un lato, ed esasperazione di mezze verità ostentate, dall’altro.

La fonte da cui tale esame storico attingerà, sarà il manoscritto dell’ex massone Calabrese, Domenico Margiotta[1], che nel suo libro/testimonianza”Ricordi di un Trentatre, il capo della massoneria universale”[2], affrontò le vicende relative all’unità italiana, vista e conosciuta dagli occhi di un massone che,  avendo rinnegata la sua appartenenza muratoria, fece la scelta di rendere pubbliche le sue conoscenze relative a vicende storiche ed umane, proprie degli anni a cavallo tra la seconda metà del XIX secolo.

Ciò che veramente lascia esterreffati, è osservare come una tale quantità e (soprattutto) qualità di informazioni storiche, all’interno del bagaglio di conoscenze scolastiche che ognuno dovrebbe avere, sia pressoché e totalmente assente. Un semplice ”caso” (non credendo io al fato, oserei piuttosto definirlo Divina Voluntas) ha infatti reso possibile, da parte mia, la scoperta di questo volume storico preziosissimo, con le pagine invecchiate di quasi 150 anni, all’interno della Biblioteca Calabrese della mia cittadina di Soriano Calabro, che mi ha posto innanzi ad una serie di verità che, perfino oggi, verrebbero tacciate di complottismo e ”neoborbonismo”, se non ci fosse una testimonianza che, per la sua antichità e contemporaneità con i periodi storici da esaminare, certamente non potrebbe essere screditata o svalutata, sul piano dell’attendibilità storica.

Per inquadrare meglio la genesi del prodotto letterario del Margiotta, da un punto di vista storico, filologico ed anche personale, va innanzitutto precisato, che tale opera letteraria non sia stata concepita, tanto e solamente, con il fine di narrare esclusivamente le vicende relative all’unificazione italiana, quanto piuttosto questa ne risulterebbe un argomento iniziale, dal quale far partire le analisi e testimonianze, che seguiranno durante il corso dello scritto stesso, finalizzate alla dimostrazione complessiva, della decadenza morale e avversione alla Chiesa (spesso sfociante nel satanismo, come vedremo) da parte della massoneria, prima, ed alla spiegazione delle stesse, come motivazioni che abbiano provocato la furiuscita del Margiotta, dal mondo massonico stesso, dopo.

Va innanzitutto detto che l’ex massone calabrese, decise di prendere le distanze da tutto il mondo massonico di cui fu parte, e non solo da quello del grande oriente d’italia (presso cui risultava maggiormente attivo), oltre che per le motivazioni appena elencate, anche a causa di alcune vicende storiche e personali, interne alla muratoria italiana, che lo spinsero appunto a volerne rassegnare le dimissioni, ed a perdere fede e fiducia, in quei valori che sedicentemente la massoneria si fosse attribuita, ma dei quali se ne fece ugualmente beffa; crimine che verrà totalmente ascritto, da parte di Margiotta, a colui che, contemporaneamente alla nascita del libro in questione, fosse divenuto il nuovo gran maestro del grande oriente italiano, ovvero Adriano Lemmi[3].

L’analisi del periodo precedente, contemporaneo ed immediatamente successivo all’unità d’Italia, il Margiotta la fa dipendere dalle vicissitudini in seno alla massoneria e, forse per il fatto che il suo scritto avesse come scopo, anche quello di rivelare le macchie dell’allora gran maestro Lemmi, dalla storia personale di quest’ultimo, ne fece discendere lo strumento narrativo e letterario per spiegare e raccontare, di quanto avvenne e del come avvenne, nel periodo unitario italiano.

Narrativamente, la trattazione storica di Margiotta relativa all’unità italiana, viene fatta coincidere, dopo una disamina della caratura morale di Lemmi, (il quale dall’ex massone calabrese viene descritto come un delinquente e ladruncolo[4] di poco conto), con l’entrata in massoneria[5] da parte dello stesso, ed ai suoi primi avvicendamenti e contatti con personaggi politici e di influenza, tanto che grazie ad alcuni suoi fratelli inglesi, riuscì a ricevere una lettera di raccomandazione da parte di Giuseppe Mazzini, presso un altro massone ungherese di nome Kossuth[6] anch’egli, secondo le prove e testimonianze raccolte da Margiotta, con un curriculum da fuorilegge che sarebbe stato esperto in furti.

Ma l’inizio della storia unitaria italiana, comincia nel 1851 con la sottoposizione a suffragio, della promulgazione di una Costituzione, da parte del Principe Luigi Napoleone, allora Presidente della Repubblica Francese; una situazione che mise in moto quella serie di eventi che, da lì ad un decennio, avrebbero condotto all’unificazione italiana, di cui il Margiotta ci racconta, che Lemmi ne fu un principale e primario protagonista[7] .

Come infatti viene descritto e narrato dall’ex massone calabrese, non solo i moti insurrezionali italiani, saranno frutto di operazioni appositamente organizzate, tra attività di servizi segreti ed assassinii, ma addirittura come dietro molti di questi episodi, si nascose la massoneria e, molto spesso, Adriano Lemmi stesso, ovvero colui sarà chiamato a divenire gran maestro,  nel 1875.

Ma la costruzione dell’unità italiana, si può dire che di italiano ebbe ben poco, se non soltanto i soggetti che si trovarono a subirne gli effetti; il merito passò anche e soprattutto dalla complicità, insieme al governo piemontese, anche di quelli elvetico ed inglese[8].

Ma la partecipazione della massoneria, all’interno del disegno unitario del territorio italiano, non si limitò ad essere presente solo in terra d’Italia; la muratoria che, notoriamente tesse le fila e, similmente al domino, giunge ad un evento voluto, attraverso la preparazione ed attuazione di tanti altri avvenimenti prodromici, similmente, affinché si verificasse l’agognata unificazione dello Stivale, si rese fautrice dell’ingerenza politica all’interno delle vicende di altri Imperi, evento che avrebbe dovuto condurre sostanzialmente sia alla caduta delle monarchie, in favore degli allora caotici sistemi democratici, e sia alla struttura di quella che, almeno a quel tempo, sarebbe dovuto divenire lo scacchiere internazionale geopolitico, delle varie potenze europee.

Esattamente in virtù di ciò, in una realtà descrittiva che fortunatamente Margiotta riuscì a rendere facilmente comprensibile nel suo scritto, a dispetto di quella che invece si palesò come realtà pratica, apprendiamo di come i vertici delle affiliazioni massoniche, capeggiate nella patria muratoria inglese, da Lord Palmerston, si adoperarono acciocché la Francia si scontrasse con la Russia (a protezione della Turchia), in alleanza con l’allora governo piemontese (che sarebbe dovuto diventare il governo dell’unificazione italiana); che la Germania fosse unificata in favore dell’impero prussiano, e che l’Austria scomparisse[9].

Ma, sebbene le motivazioni che si celarono dietro la spiegazione dell’unificazione italiana, venissero da sempre catalogate come di tipo politico, geopolitico o (in rari casi) finanziario, in realtà il Margiotta racconta di come una delle ragioni più importanti che risiedette dietro tale avvenimento storico, fu in realtà di carattere metapolitico o, quasi, esoterico-religioso[10]. L’avversione alla Chiesa, risulterà essere uno dei motivi più consistenti che abbia condotto alla decisione di unificare l’Italia. Non solo, infatti, la massoneria desiderava unire il territorio dello Stivale, per appropriarsi degli enormi beni, sia del Regno delle due Sicilie, che anche dello Stato Pontificio, ma anche e soprattutto perché, spinti dalla loro naturale insofferenza (potrebbe definirsi anche odio) verso la comunità ecclesiastica e clericale[11], volevano annichilire il potere dello Stato Pontificio, e tramite questo, porre fine anche al Regno delle due Sicilie, anch’esso di impostazione ed identità cattoliche.

Ma abbandonando il tema ecclesiastico che riprenderemo in seguito, e continuando sul filone storico, l’ex massone calabrese descrive in minuziosa dovizia di particolari, un primo bieco tentativo di condurre all’insurrezione popolare, da parte della massoneria, attraverso l’assassinio del Duca di Parma, Carlo III[12]. Ciò che infatti si voleva ottenere, vista la benevolenza di cui godevano i sovrani presso i rispettivi popoli, era piuttosto  quello di rendere i Regni, orfani dei propri Governanti, affinché un popolo senza condottiero, divenisse più facilmente controllabile. Come però sappiamo dalla storia, l’assassinio del Duca di Parma, non ebbe gli effetti sperati dalle affiliazioni massoniche, tanto che il delitto destò l’indignazione dei parmensi, al punto che la vedova di Carlo III, piuttosto che vedersi spodestata,  prese invece  la reggenza, al posto del figlio, di appena sei anni.

La pretestuosità e l’infondatezza degli scopi rivoluzionari massonici, si riscontrarono nel fallimento di un ulteriore tentativo insurrezionale da parte di Lemmi a Parma, il 22 Luglio 1855[13]. Ma le macchinazioni machiavelliche della muratoria italiana, furono ben lungi dall’essere terminate, ed ebbero nella Chiesa e nei Clericali, i loro bersagli preferiti[14];  e infatti la massoneria non si mosse solo attraverso gli omicidi, ma anche e soprattutto attraverso i complotti, che lo stesso Margiotta racconta per mezzo della corruzione perpetrata da Mazzini nei confronti di Mazza, il direttore della polizia del Regno delle due Sicilie, affinché ne ricevesse da lui le informazioni confidenziali del Re, e di come Napoleone III, che ben lungi dall’essere un sovrano autonomo, fosse piuttosto una pedina nelle mani del ”pontefice” della massoneria, Lord Palmerston, su concessione del quale, il Sovrano francese tentò di trasferire il Principe Murat a Napoli[15].

Ma il succo del racconto, il Margiotta, lo fa iniziare con il doppio tentativo di assassinio del Re delle due Sicilie, Ferdinando II[16], da parte, ovviamente,  della massoneria che si affidò anche in quell’occasione a Lemmi, e ad un nuovo entrato, nelle scene cospirative italiane: il massone siciliano, il Barone Bentivegna, il quale nonostante avesse tentato di scatenare una rivoluzione in Sicilia, a Cefalù, fu  questa subito domata, essendo nata, priva di alcun sentimento veramente rivoluzionario o di ribellione, da parte degli stessi siciliani.

Nel mentre la polizia del regno borbonico, scoprì ed apprese la presenza di un mazziniano (senza conoscerne la vera identità di Lemmi) in qualità di organizzatore dei due regicidi falliti, nella politica internazionale, per dissimulare i piani che fossero in atto, di unificare l’Italia a vantaggio di Casa Savoia, con la compiacenza e conoscenza di quest’ultima, si fece quindi apparire come il Casato piemontese dei Biancamano ne fosse totalmente neutrale ed all’oscuro. Tale dissimulazione servì appunto a fugare eventuali voci, sul fatto che dietro tali macchinazioni, non vi fosse una reale volontà insurrezionale, quanto piuttosto dei disegni politici, di usurpazione del trono. Lo stesso Margiotta, definisce questo siparietto di politica internazionale come «una stupenda commedia giuocata dalla politica piemontese[17]», a sostegno della quale, l’autore calabrese ammette che «affinché il Piemonte non fosse sospettato di complicità, si decretò di promuovere una sedizione (rivolta, ndr) anche in quel Regno, e fu appunto questa la commedia. Mazzini stesso andò segretamente a Genova, mentre Lemmi si recava in Toscana . La triplice insurrezione dei mazziniani e garibaldini scoppiò: il 29 Giugno a Genova, il 30 Giugno a Livorno, il 1 Luglio a Napoli»[18].

Lo scenario internazionale, si andrà poi ad arricchire con ulteriori riscontri, secondo i quali, sebbene a livello europeo la massoneria si servisse della Francia e di Napoleone III, per portare avanti la sua scacchiera, ugualmente quella frangia della massoneria facente capo ai mazziniani, fu comunque permeata sempre da un intimo senso di odio ed avversione verso la Francia.

Tanto che, il Margiotta, racconta espressamente di come Mazzini avesse scelto tre uomini, Paolo Tibaldi, Giuseppe Bartolotti e Paolo Grilli, per compiere quello che poi sarebbe divenuto un tentato omicidio, ai danni dello stesso sovrano francese. Di un altro attentato fallito, ai danni del Sovrano francese, ne parla Margiotta, narrando di come l’omicidio fallito ai danni del Presidente di Francia, organizzato da Adriano Lemmi, avesse provocato la morte di otto persone, ed il ferimento di 156[19]; nel mentre, l’irrequietezza ed ossessione massonica, alla destabilizzazione del regno borbonico, fece sì che il massone Carlo Pisacane, sbarcasse con alcuni uomini presso Sapri, venendo però sconfitto[20].

I legami del regno piemontese dei Savoia, con i cospiratori massoni e mazziniani, vennero però intuiti, quando a seguito del fallito attentato,  mietitore di vittime e feriti, eseguito a Parigi, la Francia decise di mandare ai sovrani delle potenze europee, un progetto di legge che riguardasse le cospirazioni contro i sovrani e sulle modalità di contenimento; disegno di legge che ”stranamente”, come ci racconta l’ex massone calabrese, venne rigettato dalla Camera piemontese[21]. Fu piuttosto la visita di Napoleone III, ad uno dei suoi attentatori, di nome Orsini, che svelandogli di come altre bombe fossero serbate per il sovrano francese, qualora egli non avesse dato adito a sostenere i massoni ed i Savoia nel loro progetto politico, che fece definitivamente abbassare la testa del sovrano, innanzi alla ”voluntas” della frangia mazziniana della massoneria, capeggiata ovviamente da Lord Palmerston.

Ma sebbene i lavori preparatori all’unificazione italiana risultassero fruttuosi oltre i confini, all’interno dello Stivale invece, la situazione risultava essere quanto mai frammentata ed eterogenea. Nonostante tutti gli sforzi che si stessero facendo per costringere i popoli ad una rivolta contro le Monarchie che, evidentemente non furono assolutamente mai avversate dai propri sudditi, a Livorno vennero infatti arrestati e messi a morte, diciotto uomini che ebbero prestato ascolto alle eccitazioni del solito Lemmi[22]. Di contro, invece, Londra riuscì a fare in modo che due Università, quella di Padova e quella di Milano, divenissero un locus agitationis, dopo aver fomentato il fanatismo degli studenti verso i Savoia, tradendo in quell’istante, l’ostentata estraneità alla faccenda, da parte del Casato piemontese.

Ma procedendo nuovamente verso il succo del discorso, giungiamo qui a narrare la preparazione e l’esecuzione dell’uccisione del Re Ferdinando II, da parte delle macchinazioni dei vertici massonici. Come infatti ci racconta Margiotta, l’assassinio del Re borbonico, venne architettato personalmente da Giuseppe Mazzini, con l’ausilio di un personaggio che lo stesso Margiotta preferisce non nominare per «non creare scandalo tra i cattolici», ma che poi, aggiunge, essere stato un nome assolutamente noto. Probabilmente, il colpevole regicida fu l’allora Vescovo di Ariano Irpino, Michele Caputo, che come molti cronisti dell’epoca raccontarono, all’arrivo di Garibaldi si presentò come l’avvelenatore del Re. Certamente il Vescovo Caputo fu un carbonaro-massone, come non solo alcune fonti dell’epoca affermano, ma addirittura ne da una più particolareggiata disamina lo stesso Margiotta, che racconta di come l’allora Monsignor Caputo, facesse parte del ”Gran Firmamento” del Grande Oriente d’Italia[23] che sostanzialmente altri non fosse, che il Tribunale sovrano, che decideva le morti, gli assassinii, e le loro modalità, e che al tempo, avesse come parola ”sacra”, l’acronimo OTEROBA, significato della frase ”Occide Tyrannos et recupera omnia bona antiqua”, ovvero la visione di costituzione di un nuovo ordine e dei vecchi valori, con l’uccisione del Sovrano Borbonico.

Continuando sul piano narrativo delle rivelazioni, Margiotta racconta anche di un altro motivo che si celasse dietro la necessità così impellente di unire l’Italia e di scacciare il Papato. Viene infatti raccontato che uno degli scopi della massoneria fosse, allora, la creazione di una religione epurata dalla figura Papale e dal clero ecclesiastico; ci viene infatti raccontato dall’autore calabrese di come, a seguito dell’unità italiana circolassero voci,  anche in Parlamento, sulla volontà di costituire una pseudo religione cattolica, privata della presenza ecclesiastica e del Papa, che si sarebbe visto sostituire proprio dal Vescovo Caputo, candidato a divenire il Pontefice massonico, della nuova religione cattolica… ”scattolicata[24]”.

Ma nel frattempo, nei racconti del Margiotta, assume via via importanza, un personaggio, fino a questo momento della narrazzione, comparso poche volte: il siciliano Francesco Crispi il quale, stando alle attestazioni dell’autore, partendo il 16 Luglio sotto il falso nome di Emanuele Pareda, da Londra per eseguirne gli ordini di Mazzini e Palmerston, iniziò a battere tutta la terra siciliana, nel tentativo di dare seguito alle insurrezioni che la massoneria ed i Savoia, tanto aspirassero per i loro piani.

Inutile dire che tali insurrezioni ancora non riuscirono ad essere portate a termine, tanto che il fallimento di queste, portò Crispi a fare ulteriori viaggi di spola, Londra-Sicilia e viceversa, per ricevere sempre nuovi ed ulteriori ordini[25] sul da farsi.

Evidentemente, la frustrazione e la malvagità, risiedenti dietro tali macchinazioni, portarono poi lo stesso Lemmi, scoperto quale armatore e organizzatore delle fallite insurrezioni,  da parte del Direttore Generale della Polizia a Palermo, Maniscalco, ad armare la mano di un uomo del posto, che in Via Maqueda, il 15 Ottobre, uccise a colpi di pugnale il Generale in questione [26].

Ci avviciniamo ovviamente alla narrazione dell’anno 1860; anno di forti turbolenze e grandi intringhi. Iniziamo subito con il fornire una prova tangibile, di quella che si volle negare come connivenza tra Garibaldi (quindi la massoneria) ed i Savoia, riportando qui la lettera che Garibaldi stesso inviò all’Ammiraglio piemontese Persano, con la quale ringraziava l’ufficiale sabaudo, della sua annunciata disponibilità nel dare man forte, alla spedizione garibaldina[27]. Insieme a questa lettera, Margiotta ne riporta altre due che dimostrano la contiguità tra il Regno piemontese e le compagini carbonare e massoniche, che per comodità di sintesi e di narrativa, non riporterò integralmente, ma riassumerò, invitando chiunque ne sia interessato, a consultare in sede bibliotecaria, il libro stesso, che certamente troverà illuminante tanto quanto lo abbia trovato io.

Orbene, queste due missive incluse nel manoscritto, furono una scritta da Eugenio di Savoia, ed indirizzata all’Ammiraglio Persano, che veniva calorosamente ringraziato per aver dato notizie della spedizione di Sicilia, e che lo si spronava a fare altrettanto e bene, nella spedizione Napoletana.

La seconda lettera, invece ha come mittente Cavour, che riferendosi sempre all’Ammiraglio, lo si intimava di accettare la carica della dittatura napoletana o, anche qualora non fosse stata a lui proposta, di impadronirsi ugualmente della flotta napoletana.

Ma è la terza lettera presente nel libro, a dare un’idea di quello che, in quell’anno, fu necessario per riuscire a sovvertire uno dei Regni più potenti d’Europa, quale fosse quello delle due Sicilie. In questa lettera, vede l’Ammiraglio Persano scrivere al Conte Cavour, al quale porge le sue sostenute e battenti lamentele, riguardo la mole di denaro che abbia dovuto sborsare per ingraziarsi, corrompere e mettere d’accordo, tutti quei personaggi che risultassero funzionali alla disgregazione interna del Regno borbonico. Lo stesso Persano, sebbene uomo del Regno piemontese, evidentemente nauseato e stremato da quel clima di tradimento e prostituzione politica, si trovò così a dire: ”Ho dovuto distribuire altro denaro. Ventimila ducati a De Vincenzi, due mila ducati al console Fasciotti, per ordine del Marchese Villamarina, e quattromila al Comitato. Benchè tutto ciò sia eseguito secondo le misure da me stabilite, senza che un solo soldo passasse nelle nostre mani, pur tuttavia questa quistione di danaro ha finito per istancarmi. In verità questo non è affare mio[28]”.

Ma i punti d’ombra, per non definirli proprio delle macchie, non terminano nei racconti di tangenti, tradimenti e corruzione; ciò che Margiotta riuscì a reperire ed a scoprire, fu assolutamente sconcertante da un punto di vista essenzialmente storico-elettorale. Grazie agli scritti di Carletti, prima agente di Cavour, e poi uomo di fiducia di Farini, il medico-dittatore di Modena e Parma, si scoprì di come le votazioni sia parlamentari dopo il subentro di Farini, e sia quelle sulla scelta dell’annessione ai Savoia, furono totalmente falsate da brogli, che ebbero nell’inserimento di schede fasulle, il loro modus operandi, foraggiato anche dall’alta percentuale di astensionismo[29]; fecero solo attenzione a non far risultare eccessive le percentuali venute fuori dagli scrutinii, sia grazie all’inserimento di uomini di fiducia nelle commissioni e tra i Carabinieri, e sia grazie ai registri di censimento, ottenuto con la forza, dalle parrocchie.

A maggior intendimento dello scenario preparato e da commedia, che si fosse vissuto in quel periodo, Margiotta ci racconta di come l’Arcivescovo di Bologna, Monsignor Viale Prelà, rifiutò di prestarsi alla farsa che lo avesse voluto ad accogliere il Re piemontese, al canto del Te Deum[30]; in virtù  di tale rifiuto, seguirono le autonome prese di posizione di tre capellani e dodici alunni del seminario i quali, contravvendendo alle disposizioni episcopali, si prestarono invece a reggere quella commedia, con tanto di bandierine pontifice, che valse ai suddetti, la scomunica a divinis da parte dello stesso Arcivescovo[31]. Il fattore, nel quale si possa certamente rinvenire l’ipocrisia di quella cerimonia ostentativa, risiede nel fatto che si cercasse l’approvazione di una Chiesa, che contemporaneamente si stesse ferocemente combattendo.

Continuando la narrazione, Margiotta racconta lo stratagemma che venne escogitato per far credere che a realizzare l’unificazione italiana, fosse stato Garibaldi e non invece i piemontesi con l’aiuto della massoneria: poiché infatti, presso Pontedera[32] si furono accampati un nutrito numero di piemontesi i quali, essendo immediatamente a riverso del territorio pontificio, destavano la preoccupazione per la sicurezza del Papa da parte della Francia, la quale chiese l’immediato scioglimento dell’accampamento stabilitosi a Pontedera, per mantenere salda l’alleanza francese che dava la parvenza di tenere alla sicurezza del Papato (per non scontentare i cattolici tradizionalisti francesi, la massoneria aveva concesso a Napoleone III di recitare una piccola commedia, con cui sebbene alleato dei piemontesi, facesse quantomeno trasparire in teoria, una sua gestualità di preoccupazione per la sicurezza pontificia[33]), allora come inganno, inserito in un ulteriore inganno (la recita francese), da Pontedera vennero mosse sì divise garibaldine, ma fittiziamente indossate non da veri arruolati delle giubbe rosse, bensì da semplici soldati piemontesi travestiti; questi vennero inviati a Palermo, mentre il vero accampamento di Pontedera, si apprestava a travalicare bellicosamente i confini dello Stato Pontificio, diviso in tre filoni, uno diretto a Perugia, un altro ad Urbino e l’ultimo a Pesaro.

La strategia fu quella di far invadere questi tre territori dalle giubbe garibaldine, in segno di (apparente) ”autonoma” guerriglia, a seguito della quale, per sedarla, si sarebbe quindi richiesto l’intervento dei piemontesi[34] in qualità di pacificatori.

E così avvenne. tanto che lo stesso giorno dell’insurrezione, vennero ”stranamente” nominati come reggenti dei territori marchigiani ed umbri appena conquistati, un manipolo di ufficiali pontifici che erano stati banditi ed espulsi dallo stesso Stato Pontificio, a seguito del loro tradimento durante la rappresaglia del 19 Marzo eseguita proprio nel territorio Pontificio[35].

Con le rivelazioni dell’ex agente di Cavour e Farini, Carletti, Margiotta porta a conoscenza la conferma di un fatto che lo stesso Carletti affermava, da molti supposto, ma che nessuno lo avesse mai osato confermare, cioè che durante la presa dei territori marchigiani, il Generale De Pimodan, non morì a causa di un colpo nemico, bensì  assassinato a bruciapelo da un suo soldato, vendutosi ai piemontesi[36].

Maturò così la presa dei territori pontifici e di quelli borbonici, da parte della triade Savoia- Garibaldi-Massoneria. Ma ciò che Carletti racconta, è di una situazione tutt’altro che rosea e stabile. Soprattutto nel Regno delle due Sicilie da poco conquistato, la scena politica si presentava quantomai frammentata in un dicotomico frazionamento, tra Garibaldini che vivevano più di sprazzi di ricercata acclamazione, che non di vero consolidato potere, e i borbonici che, ripresisi dallo sconcerto iniziale, stessero iniziando a pensare ad un contrattacco.

Per tale motivo Margiotta, attraverso la trasposizione dei documenti e racconti di Carletti, narra la crudeltà che i piemontesi, sia nei loro ufficiali di ruolo che anche in quelli comprati tra le fila borboniche,  dimostrarono di avere verso l’inerme ed incolpevole popolo duosiciliano, e che fu anche il motivo che spinse alle dimissioni dello stesso Carletti, che constatava come in tutti i territori vi fosse il sentimento di indipendenza dai Savoia, e di come i piemontesi venissero da tutti visti, come stranieri ed usurpatori[37].

Al termine di questa trattazione, Margiotta riassume i vertici che, a loro volta, intendevano spartirsi il bottino illecitamente e sanguiosamente conquistato: da un lato c’era Cavour che pretendeva che l’unificazione italiana rimanesse sotto l’egida della Monarchia Savoia, visti anche gli enormi esborsi sostenuti, per le attività di corruzione e spionaggio, che il regno piemontese, tra cui lo stesso Cavour, avessero sostenuto; dall’altro lato, c’era invece Mazzini ed i suoi accoliti, che invece speravano di poter democraticizzare lo Stivale, sotto l’effetto di una Repubblica. In mezzo, si trovavano i Savoia che, lungi dall’essere i protagonisti e fautori di quell’unificazione, quale loro si ritenessero, furono invece lo strumento posto tra le due forze uguali e contrarie, rappresentate da Cavour e Mazzini[38].

Ebbene, alla luce di quanto si sia potuto leggere ed esaminare, in questo breve trattato storico, politico e (perché no?) a tratti anche ecclesiastico/religioso, ritengo che ancora di più gridi sete di verità, la conoscenza dei fatti narrati nel manoscritto di questo grande e dimenticato calabrese, da parte di tutti gli ex abitanti di quel vecchio Regno delle due Sicilie, che oggi, forse in maniera troppo sprezzante, viene definito e relegato, nella sciatta definizione di ”Sud”. Il mio intento divulgativo di tale opera, non ha voluto certamente mirare ad uno scopo insurrezionale, né tantomeno di incitamento all’odio; bensì nutrendo io la forte convinzione, che solo la vera verità, possa dare a sua volta una vera libertà e coscienza di scelta e valutazione, ho ritenuto opportuno regalare ad ogni mio fratello e sorella di questo ”Sud”, ed in particolare di questa Calabria, la conoscenza di ciò che la terra che loro quotidianamente calpestano, sia veramente stata, ed il motivo per il quale, sia invece quello che invece oggi è.

Grazie.

Emmanuel Giuseppe Colucci Bartone


[1]     Domenico Margiotta, nasce il 12 Febbraio 1858, nella cittadina calabrese di Palmi, nel Reggino;  fu Dottore in Lettere, Filosofia e Medicina, Avvocato di San Pietro, Cavaliere dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro, Cittadino Onorario di Acri, Galatro, Caridà e Feroleto, ed ovviamente ex massone di diversi riti ed obbedienze. Fu infatti ex massone del 33° grado del rito scozzese, ex maestro venerabile, ex Segretario della loggia Savonarola di Firenze, ex grande sovrano ispettore generale, ex sovrano principe dell’ordine del rito di memphis e misraim, ed ovviamente dopo aver abbandonato e rifiutato le sue appartenenze massoniche, si convertì alla religione cattolica. La datazione della sua morte, risulta essere totalmente sconosciuta, poiché le ultime sue notizie, si ebbero dalla Spagna, da dove poi misteriosamente sparì (probabilmente raggiunto, rapito ed ucciso dai suoi ex fratelli massoni). Stranamente, Margiotta, compare nel romanzo di Umberto Eco, Il Cimitero di Praga.

[2]     Il libro, edito da DELHOMME E BRIGUET EDITORI, è in originale di stampa, presso la Biblioteca Calabrese di Soriano Calabro, ed è formato dalla prima edizione italiana del 1895, basata sulla sesta edizione francese, con l’aggiunta di nuove e più complete note, rispetto alle precedenti edizioni di stampa.

[3]     «Sapete quanto vi sono devoto, e con quale zelo mi sono adoperato in Italia a secondare i vostri coraggiosi sforzi, nella lotta contro l’infame Adriano Lemmi»… «Ebbene, nonostante il buon diritto massonico, chi trionfato nell’alta massoneria?- Il ladro. Grazie alla combinazione Findel, chi ha vinto le resistenze dei massoni onesti?- L’assassino». Estratto della lettera ”Parole d’amicizia”, che il Margiotta, ha inserito all’interno del libro, e che avesse indirizzato alla sua amica massona e gran maestra del ”perfetto triangolo”, Diana Vaughan.

[4]     Cap. I, pag.5 e seguenti – Ricordi di un Trentatre

[5]     «Adriano Lemmi fu, come dicesi, iniziato alla massoneria nel 1848 da alcuni frammassoni inglesi» Cap. I, pag. 11 – Ricordi di un Trentatre

[6]     Cap. I, pag. 12- Ricordi di un Trentatre

[7]     « Da questo momento Lemmi comincia a rappresentare una parte assai importamte in tutti gli assassinii politico-massonici ed in tutti i moti popolari onde l’Italia fu sanguinoso teatro. Egli mantiene, da parte di Mazzini, delle intelligenze segrete coi rivoluzionarii di Toscana, suoi conterranei; e fu lui che il 21 Ottobre 1852 inspirò il tentato assassinio, in pieno giorno, sul presidente del consiglio del Granduca, il ministro Baldassarre Rossi». Cap. I, pag. 13 – Ricordi di un Trentatre.

[8]     «I governi elvetico e piemontese si sforzano di non sembrare complici, mentre lo erano abbastanza. Numerosi emigrati dell’alta Italia, rifugiati nella Svizzera o nel Piemonte, seguivano le istruzioni di Mazzini trasmesse da Lemmi. Il Piemonte, assistito dall’Inghilterra (che sosteneva segretamente la massoneria e Mazzini), si sforza di scongiurare l’esecuzione di un Decreto dell’Imperatore d’Austria per la confisca dei beni dei rivoluzionari emigrati; ma il 18 Febbraio, sugli ordini di Kossuth e Mazzini, un fanatico rivoluzionario attentò alla vita dell’imperatore, per punirlo di tal decreto, e Lemmi era stato scelto ad armare il braccio dell’assassino». Cap.I, pag. 14 – Ricordi di un Trentatre.

[9]     Cap. I, pag. 16 – Ricordi di un Trentatre

[10]   «Ma mentre gli eserciti combattono in Oriente, la politica dei nemici della Chiesa non cessa di lavorare; ed appunto nel 1854 il governo piemontese, complice di Mazzini, Lemmi e compagni, si mostra anticlericale all’eccesso. Il 10 Marzo, i beni del Seminario di Torino sono confiscati arbitrariamente»… «Così il 28 Novembre, è presentato un progetto di legge per la soppressione delle comunità religiose, le cui ricchezze fanno gola al governo piemontese.» Cap. I, pag. 16 – Ricordi di un Trentatre

[11]   «Il governo  piemontese, nel Gennaio 1855, sopprimeva 334 Case di frati e di suore, ma lasciava in pace le società rivoluzionarie; le quali, a cagione di questa complicità sotto forma di tolleranza, si sviluppavano e macchinavano spaventevoli delitti.» Cap I, pag. 19 – Ricordi di un Trentatre

[12]   « La morte del Duca di Parma fu, dunque, votata alla unanimità, meno il suffragio di Pyat. Mazzini mandò a Lemmi un passaporto a nome di Lewis Broom, ed il nostro eroe lasciò immediatamente Malta per portarsi nel ducato munito di questi falsi incartamenti. Sbarcò alla Spezia donde si recò a sarzana, e raggiunse Parma per la via di Pontremoli e Fornovo. Ma ebbe cura di non trattenersi a Parma che un solo giorno, tempo sufficiente per vedere separatamente i mazziniani della città e fissare con loro un convegno a Castel Guelfo. I congiurati si riunirono in una casetta di campagna presso il ponte del Taro; l’assemblea fu presenziata da Lemmi che fece giurare il segreto; un certo Lippi aveva apparecchiato un fantoccio sul quale fu insegnata la maniera di dare i più terribili colpi di pugnale, e si tirò a sorte l’assassino. ADriano gli disse ”Oggi è la festa dei gesuiti e delle suore; essi celebrano l’apparizione di un angelo alla loro Madonna per annunziarle ilo Messia e che ella ne sarebbe la madre. Ebbene, fratello, io t’annunzio che tu sarai il messia della rivoluzione a Parma… colpisci il despota, senza che il tuo braccio tremi. Il nostro dio, che nn è quello dei preti, ti proteggerà”. Il giorno appresso, Carlo III cadeva sotto il colpo del sicario, di cui Lemmi aveva stimolato il fanatismo. Si sa che l’assassino, Antonio Cerra, riuscì a fuggire…. Adriano Lemmi si vantò sempre di esere stato l’emissario di Mazzini, in un gran numero di assassinii, e Mazzini iceva volentieri: ”Il mio piccolo giudeo vale dieci buoni diavoli, tanto è egli abile a scegliere gli uomini che bisognano nelle imprese importanti”.» Cap. I, pag, 18 – Ricordi di un Trentatre

[13]   Cap. I, pag. 19 – Ricordi di un Trentatre

[14]   «Munito di un passaporto ungherese, appartenente ad un satellite di Kossuth, Lemmi (ndr) potè recarsi a Roma sotto il nome di Ullrik Putsch, cuoco; ed il 12 Giugno, fuvvi un attentato assasinio sul Cardinale Antonelli… il 9 Luglio, il giorno medesimo che egli fece ritorno nella città dei Papi, si commise un tentativo di assassinio sul Padre Beckx generale dei gesuiti». Cap. I, pag. 19 – Ricordi di un Trentatre.

[15]   Cap. I, pag. 21 – Ricordi di un Trentatre

[16]   «Bentivegna fu scelto per fomentare la rivolta, e Lemmi si incaricò del’assasinio. Si era progettato di mandare in aria Ferdinando II per mezzo di una bomba che un affiliato fanatico dovea gettare sotto la carrozza reale durante una passeggiata pubblica di Sua Maestà. Per la scelta dell’assasino Mazzini lasciava piena libertà ad Adriano, e questi sclese un ebreo Lombardo, a nome Giosuè Possagno, il quale avea trovato le composizioni chimiche della macchina esplosiva: costui fabbricò due bombe, lasciandole incomplete, in quanto alle polveri da introdursi. Lemmi, una volta munito delle due bombe[…] andò prima a Palermo per raggiungere Bentivegna che lo aspettava. Per poter circolare liberamente nel Regno senza far conoscere il suo essere, aveva ricevuto un passaporto francese a nome di Giacomo Lathuile, negoziante, che Ledru-Rollins erasi procurato da un amico. […] Il nostro eroe trovò tutto pronto a Palermo. […] Poscia andò a Napoli. L’assassinio del Re era fissato pel 22 Novembre, giorno in cui sarebbe sarebbe pure scoppiata l’insurrezione in Sicilia. Bentivegna aveva detto che non bisognava assolitamente fare affidamento su di un napoletano; perciò egli aveva fornito ad Adriano un giovinotto dei dintorni di Messina, a nome Filippo Carabì, che fu suo compagno di viaggio. Questo giovane sembrava ben deciso; si capirà inoltre, senza stento, che Lemmi-Lathuile non mancò di fargli la lezione ed eccitarlo durante il viaggio. A Napoli essi scesero in due alberghi diversi. Lemmi portò a compimento una delle bombe, conformemente alle dindicazioni di Giosuè Possagno, ed i due complici presero degli accordi per incontrarsi, una Domenica assai per tempo, alla prima messa del convento dei Camaldoli, che è nei dintorni della città, e dove i viaggiatori di piacere vanno di buona voglia, perché dal sommo della collina si gode di uno dei più splendidi panorami d’Italia. Lemmi avea passata la notte a Soccavo, e Carabì a Nazaret. Alla messa dei Camaldoli, il nostro eroe aveva la sua bomba in tasca. Poi scesero insieme a Pianura, che è ai piedi del colle, e dove trovansi grandi cave di pietra. Colà fu fatta la prova. […] E’ fuor di dubbio che questo giovinotto aveva grande piacere di rischiare la vita per uccidere il Re; ma si era detto, come tutti quelli che commettono reati di tal sorta, che avrebbe forse la fortuna di sottrarsi al massacro. La prova delle cave di Pianura gli avea dimostrato che non eravi speranza alcuna di tirarsene sano e salvo; allora gli balenò forse il sospetto che il suo compagno lathuile si servisse di lui come strumento e lo sacrificasse, formando non solo il progetto di non correre alcun rischio, ma eziandio di non si compromettere. Checchè ne sia, il giorno seguente Filippo Carabì disse al suo compagno che non bisognava per nulla fare assegnamento su di lui, ch’egli aveva pensato che era l’unjco sostegno della sua vecchia madre e delle sue due sorelle, e che per consiglio gli dava quello di trovare un altro esecutore della sentenza di Mazzini ovvero che facesse egli medesimo, Lemmi, di mandare in aria il Re; gli giurò di servare il segreto e lasciò Napoli immediatamente. […] Giurò di castogare più tadri il siciliano disubbidiente. Ed infatti, il povero Filippo Carabì fu assassinato, cinque anni più tardi, in una loggia di Napoli un giorno ch’egli v’era andato senza diffidenza. Gli archivi del DIrettorio di Napoli ne danno i più minuti particolari. […] Il pseudo Giacomo Lathuile erasi, inoltre, messo in relazioni strette con varii capi massoni napolitani, che lo consigliavano di non utilizzare la seconda bomba, e si sclese un’altra arma omicida: il pugnale, invece della polvere. Nel regio esercito contavansi degli affiliati (massoni, ndr). Due giovani militari, Giuseppe Locuti ed Agesilao Milano furono presentati a Lemmi il 4 Dicembre, in casa di un mazziniano di Torre del Greco. […] Addì 8 Dicembre, nel momento in cui Ferdinando II passava in rivista l’esercito a Napoli, il soldato Agesilao Milano si staccò improvvisamente dalle file e tirò due violenti colpi di baionetta al Re, colpendolo in mezzo al petto. Per fortuna la baionetta di curcò e Ferdinando II non fu ferito. Milano tratto subito in arresto, fu giudicato, condannato a morte e giustiziato il quarto giorno dopo l’attentato. Mazzini fece coniare una medaglia commemorativa in onore dell’assasino». Cap. I, pag. 21 – Ricordi di un Trentatre.

[17]   Cap. I, pag. 25 – Ricordi di un Trentatre

[18]   Cap. I, pag. 26 – Ricordi di un Trentatre

[19]   Cap. I, pag. 26 e ss. – Ricordi di un Trentatre

[20]   Cap. I, pag. 27 – Ricordi di un Trenatre

[21]   Cap. I, pag. 27 – Ricordi di un trentatre

[22]   Cap.I, pag. 28 – Ricordi di un Trentatre

[23]   Cap. I, nota n.1 pag. 30 – Ricordi di un Trentatre

[24]   Cap. I, nota n.2 pag. 30 – Ricordi di un Trentatre

[25]   Cap. I, pag. 31 – Ricordi di un Trentatre

[26]   Cap. I, pag. 33 – Ricordi di un Trentatre

[27]   ”AMMIRAGLIO,

      Mi avete dato una notizia proprio graditissima, e ve ne testimonio tutta la mia gratitudine; sotto la vostra egida onnipotente, io sono tranquillo. – Al pari di voi, io credo che vale meglio che la flottiglia venga direttamente qui.
Dò ordine perciò a Medici d’entrare immediatamente nel piccolo porto ove io lo aspetterò”. Cap. I, pag. 36 – Ricordi di un Trentatre

[28]   Cap. I, pag. 38 – Ricordi di un Trentatre

[29]   Cap. I, pag. 40 – Ricordi di un Trentatre

[30]   Cap. I, pag, 43 – Ricordi di un Trentatre

[31]   Cap. I, pag. 43 . Ricordi di un Trentatre

[32]   Cap. I, pag. 45 – Ricordi di un Trentatre

[33]   Cap. I, nota n. 1 pag. 46 – Ricordi di un Trentatre

[34]   Cap. I, pag. 46 – Ricordi di un Trentatre

[35]   Cap. I, pag. 47 – Ricordi di un Trentatre

[36]   Cap. I, pag. 47 – Ricordi di un Trentatre

[37]   ”I Generali traditori e stranieri, i Pianel, i Nerin, i Galatieri, i Fumel ecc, nell’invadere gli stati napolitani, annunziarono una guerra d’estrerminio, nella quale la pietà era un delitto. Cialdini che può gloriarsi di aver ordinato più fucilazioni durante la breve durata della sua luogotenenza che tutti i poteri anteriori, indirizava, il 28 Ottobre, a tutti gli ufficiali sotto i suoi ordini, questo proclama: Fate pubblicare che io fucilo tutti i contadini armati che prendo; già ho cominciato, e dovunque gli insorti (che difendevano la loro patria e la loro nazionalità contro l’invasore) caddero nelle mani dei piemontesi, furono fucilati sommariamente e senza misericordia.

      Si videro sacrifizii umani di 40 o 50 prigionieri per volta. A Monteciffiano, per esempio, sopra 80 prigionieri, 47 furno passati a fil di spada; a Montefiascone 50 uomini rifugiati nella Casa stessa di Dio, vi furono sgozzati; a Montecoglioso, un capitano fece chiudere in una capanna 12 lavoratori che non l’avevano bene informato sul cammino degli insorti, e li bruciò vivi in presenza delle loro famiglie”. Cap. I, nota n. 1 pag. 51 – Ricordi di un Trentatre

[38]   Cap. I, pag. 52 – Ricordi di un Trentatre

EMMANUEL GIUSEPPE COLUCCI BARTONE

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